Il mondo visto con gli occhi delle api

Candito

Racconti dall'alveare

Oggi ho aggiunto una vaschetta di candito.

Oggi, ho aggiunto un’altra vaschetta di candito.

Lo faccio sempre di malavoglia, non mi piace nutrire le Api, ma le ingenti scorte di miele osservate a fine settembre sono sparite da un pezzo. Infatti, anche quest’inverno, a causa delle alte temperature, le famiglie non sono “entrate in letargo” riunendosi in glomere, ma escono in volo quasi ogni giorno consumando miele con il risultato di terminare velocemente le loro riserve.

Però vederle impegnate sul candito all’interno della vaschetta, mi permette di osservarle anche in pieno inverno e in tutta sicurezza. Col dito, picchiettando delicatamente sulla plastica, non ne distraggo nemmeno una, anzi, tutte quante in fila, tirando fuori la linguetta a intermittenza, sembrano addirittura prendermi in giro.

Le operaie in attività sul predellino trasportano polline di nocciolo nelle cestelle, segno evidente della presenza di covata. Qui, a gennaio, non molto tempo fa era pieno inverno e la primavera ancora lontanissima.

Nessuno è bravo come le Api a spiegare i cambiamenti climatici, e dovremmo ascoltarle. A me suggeriscono una riflessione. Ogni cambiamento è transitorio e quelli climatici non fanno eccezione, avranno un esito ben definito che porterà irrimediabilmente ad una soluzione.

È fuori da ogni dubbio che la Natura stia cercando di ristabilire un nuovo equilibrio. L’enigma, a questo punto, è se alla fine vorrà puntare ancora sul genere umano o scommettere su un’altra specie. Si sa, la Natura nella sua imparzialità può sembrare spietata, mentre con noi è stata fin troppo benevola.

Può apparire assai strano, ma sono ancora le Api a raccontarci di una tragica estinzione di massa, non soltanto perché ne furono testimoni, oltre che inconsapevolmente colpevoli, quella dei Dinosauri.

All’epoca, la catena alimentare si basava su piante molto semplici, le prime ad apparire sulla Terra, felci, equiseti e le Gimnosperme come le conifere, piante tossiche che difficilmente venivano degradate dalle esigue popolazioni di microrganismi allora presenti nel terreno.

Tutto cambiò improvvisamente nel Giurassico con la comparsa delle Angiosperme, le latifoglie e le graminacee, piante capaci di utilizzare notevolmente meglio la fotosintesi clorofilliana, oltre a sintetizzare ingenti quantità di cellulosa e lignina, matrici essenziali per la formazione dell’humus, lo strato fertile del suolo.

Queste piante liberavano anche grandi quantità di ossigeno nell’atmosfera, permettendo l’esplosione dei funghi aerobi, anche questi necessari per l’umificazione della sostanza organica.

Nei resti fossili di quel periodo compaiono i lombrichi e i microrganismi del suolo, quindi non più spessi strati quasi indecomposti, ma humus e fertilità in abbondanza.

Con queste condizioni, l’opera di decomposizione e la conseguente formazione di terreno fertile subirono un’impressionante accelerazione, basti pensare che un ago di pino impiega almeno dieci anni prima di essere decomposto, mentre ne basta uno soltanto per una foglia di acero.

Lo spesso strato di terreno permise alle angiosperme di vincere la competizione con le gimnosperme. Le felci e gli equiseti si ridussero alla sola forma erbacea, mentre le conifere, più resistenti al freddo, poiché la resina non gela, furono relegate negli areali più freddi e sulle montagne.

Assistiamo così all’origine della biodiversità che conosciamo oggi, a quel profondo, strettissimo e indissolubile legame tra la fertilità del suolo, le piante e gli insetti deputati alla loro impollinazione. Alleanza questa, talmente potente, da poter essere stata addirittura la vera causa dell’estinzione dei dinosauri.

Difficile credere all’impatto del meteorite, poiché ciò non spiegherebbe la sopravvivenza di tartarughe, squali e coccodrilli. L’impatto con il meteorite certamente c’entra, infatti, potrebbe aver causato la mutazione genetica di alcuni vegetali favorendone l’evoluzione in angiosperme, vegetali fermentescibili, non come le gimnosperme dei quali si nutrivano i dinosauri.

Di certo sappiamo che erano animali a sangue caldo, quindi evoluti, e che traevano calore dalle fermentazioni generate nel loro stomaco, però purtroppo mantenevano il sistema immunitario dei rettili a sangue freddo, “primitivo” rispetto a quello degli uccelli e dei mammiferi, i nuovi colonizzatori.

Con la progressiva diminuzione delle felci, dei licheni e dei sempreverdi, i dinosauri furono costretti a nutrirsi degli invadenti vegetali maggiormente fermentescibili con conseguenze disastrose. Scomparsi per sempre i dinosauri erbivori, anche i temibili tirannosauri carnivori ebbero vita assai breve.

Certo, l’impatto del meteorite è l’ipotesi di gran lunga più romantica del meteorismo e dell’immane diarrea, che probabilmente è quella più realistica. È perciò sottovoce e con profondo rispetto che sostengo la possibilità che l’Era dei Dinosauri sia finita in cacca. 

Comunque sia andata, i dinosauri non sono scomparsi in allegria, e un po’ come la maledizione dei Faraoni, hanno lasciato il germe dell’estinzione di massa nei giacimenti mai completamente metabolizzati di petrolio e carbone, residui delle loro spoglie indecomposte e dell’ambiente in cui vivevano. Però, meteorite o altro che sia, non sono affatto colpevoli della loro dipartita, c’è stata una causa ed un grave effetto.

Noi umani, esseri notevolmente più evoluti, potremmo essere l’unica causa della nostra scomparsa. Dobbiamo correre ai ripari in fretta, iniziando proprio lasciando sottoterra, soffocandolo, il germe delle’ estinzione nascosto dai dinosauri. Un sacrificio necessario se vogliamo ancora invocare la benevolenza della Natura.